L’appello disperato dell’indimenticato campione ad un mondo, quello calcistico, che forse lo ha accantonato troppo presto.
Antonello Venditti in un suo celebre pezzo chiamato “Tradimento e Perdono“, dedicato agli indimenticati Pantani, Tenco e Di Bartolomei, sottolineava l’importanza di viversi i campioni quando sono ancora in vita e considerarli per ciò che sono stati e ciò che possono ancora dare in altre vesti, non piangerli una volta scomparsi dopo esser stati accantonati per anni ed anni.
È ciò che è successo a Pietro Anastasi, formidabile attaccante degli anni ’60 e ’70, da qualche tempo malato di SLA e morto nel gennaio del 2020. Anastasi, Pietruzzu come lo chiamavano amorevolmente i tifosi, si è ammalato nel 2018 all’età di 70 anni ma già da qualche tempo era lontano dal calcio raccontato tramite studi e salotti, anche se il grande cordoglio trasversale per la sua scomparsa gli ha forse restituito quell’amore che ultimamente aveva sentito meno dal mondo dell’adorato pallone.
Ammalatosi inizialmente di tumore, poi operato e rimosso dall’intestino, è successivamente sopraggiunta la SLA che l’ha pian piano indebolito fino a fargli chiedere la sedazione assistita per andarsene quanto più serenamente possibile.
Tanti grandi del calcio si sono spesi per Anastasi, da Zoff a Marchisio passando per gli account social dei vari club calcistici, raccontandolo come un uomo buono e generoso, nonché “simbolo vivente di un’intera classe sociale: quella di chi lasciava a malincuore il Meridione per andare a guadagnarsi da vivere nelle fabbriche del Nord” come venne definito da Alessandro Baricco.
Pietro Anastasi, per tutti Pietruzzu, nasce a Catania il 7 aprile del 1948 e se ne va, sconfitto dalla SLA, il 17 gennaio del 2020.
Dotato di un fisico robusto ma basso di statura, appena 172cm, Anastasi si è sempre distinto come un calciatore estremamente moderno, quasi sbagliato per gli anni in cui giocava, all’epoca infatti andava di moda il classico centravanti possente, bravo nel gioco aereo, stazionante in area di rigore con la maglia numero 9 sulle spalle, Anastasi invece era un attaccante atipico: velocissimo e generoso, spesso si defilava in fascia andando a servire assist per i compagni di squadra, in più era solito rivenire sugli avversari rincorrendoli per il campo, andandosi a spendere molto anche in fase difensiva ripiegando spessissimo.
Nonostante l’enorme generosità Anastasi era comunque dotato di fiuto per il gol ed innato opportunismo sotto rete, caratteristiche che gli permisero di siglare ben 201 reti in carriera. Diventato famoso ad appena 20 anni con la maglia del Varese, quando arrivò in doppia cifra di gol in Serie A nella stagione 1967-1968, la Vecchia Signora bianconera non se lo fece scappare e lo mise immediatamente sotto contratto arrivando a pagare la cifra record per quel decennio di 650 milioni di lire.
Con la Juventus è amore a prima vista, d’altronde Anastasi ne era tifoso già da bambino, e così inizia una storia d’amore che durerà 8 lunghi anni costellati di successi: 132 gol in 307 partite disputate, due stagioni con la fascia di capitano al braccio e 3 Scudetti vinti.
Successivamente, all’età di 28 anni, si trasferisce all’Inter dove non replica però le prestazioni avute col bianconero addosso, ma si toglie comunque la soddisfazione di vincere una Coppa Italia.
Dopo sole due stagioni in nerazzurro si trasferisce all’Ascoli sul finire della carriera, ma prima di ritirarsi abbandona il bianconero dei piceni per trasferirsi un anno in Svizzera, al Lugano, dove riassaggia l’ebbrezza del gol andando a segnare 10 reti in appena 14 gare.
Dopodiché Anastasi si ritira, consegue il patentino di allenatore ma rimane ad allenare esclusivamente nelle giovanili del Varese, città dove poi si stabilirà con la famiglia, per poi diventare opinionista di Telepiù, Telelombardia e 7 Gold.
Anastasi non sarà ricordato unicamente come bandiera e idolo della tifoseria juventina, bensì rimarrà un acclamato eroe nazionale per tutti gli amanti di questo sport avendo segnato 8 reti in 25 presenze con la Nazionale, a cui si aggiunge la ciliegina sulla torta del gol in finale contro la Jugoslavia nell’Europeo del 1968 che ci permise di vincere il torneo disputatosi proprio nel nostro paese.
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